Sono frutto di una precisa visione dell’artista, che afferma “La maggior parte delle mie foto è radicata nella gente. Cerco il momento in cui si affaccia l’anima più genuina, in cui l’esperienza s’imprime sul volto di una persona. Cerco di trasmettere ciò che può essere una persona colta in un contesto più ampio che potremmo chiamare la condizione umana”. Riuscendo nell’intento in modo magistrale.
Nel 1979 le truppe sovietiche invadono l’Afghanistan per soccorrere il governo nel tentativo di spezzare la resistenza dei mujahidin, a loro volta sostenuti dagli Stati Uniti. Nel maggio dello stesso anno Steve McCurry, travestito da afghano, entra nel paese con un gruppo di ribelli. L’allora giovanissimo fotografo si presenta privo di documenti e accompagnato esclusivamente dalla macchina fotografica e da un coltellino svizzero. Il viaggio comincia dall’India centrale, dove McCurry si trovava da quasi due anni, per continuare in Pakistan, a ovest dell’Himalaya. Nella piccola cittadina di Chitral, il fotografo entra in contatto con alcuni rifugiati, i quali gli fanno indossare un logoro shalwar kameez e lo conducono al confine. “Mi sentivo allo stesso tempo spaventato ed eccitato nel partire dal Pakistan in quegli abiti per entrare clandestinamente in un altro paese, senza alcuna possibilità di comunicare con il resto del mondo”.
Steve McCurry si trova così nel mezzo della guerra fredda, testimone esclusivo e segreto di un conflitto manovrato da Stati Uniti e Unione Sovietica. Il fotografo aveva all’epoca ventinove anni e nonostante le inevitabili tensioni ed il rischio costante di perdere la propria vita, vive una delle esperienze più esaltanti della propria carriera. Situazione che gli permette, in primo luogo, di incontrare amici e di sperimentare quel senso di umanità e di solidarietà internazionale che è capace di perdurare anche nelle situazioni geo-politiche più complesse del pianeta. Nel giugno di quell’anno il fotografo trascorre tre settimane con i compagni afghani, comunicando con un linguaggio fatto di segni e gesti.
Dell’Afghanistan McCurry porta con sé il senso di semplicità, l’essenzialità connaturata alla vita di stenti che accompagna i protagonisti di una guerra. Nel suo primo viaggio il fotografo americano realizza esclusivamente immagini in bianco e nero, impiegando una pellicola Kodak Tri-X ad alta velocità. Nella messa in posa dei soggetti e nell’intensità che trapela da molti sguardi si intuisce già lo stile futuro del McCurry “a colori”, capace, come pochi altri, di stabilire un profondo e unico legame tra il fotografo e il suo soggetto.
McCurry torna in Afghanistan innumerevoli volte, spesso al servizio di riviste internazionali. Ogni viaggio rischia di compromettere la sua vita ma egli dimostra sempre di accettarlo senza compromessi. Una delle sue ultime esperienze risale al 2002, anno in cui viene scattata l’immagine qui riportata.
Siamo di fronte ad uno dei suoi ritratti indimenticabili. L’opera fa parte di un lavoro di documentazione sulle miniere in Afghanistan. Il paese possiede infatti un terreno ricchissimo di minerali non ancora del tutto sfruttato; un luogo malsano in cui la gente vive in condizioni di povertà estrema. Siamo alle porte di una miniera di carbone e il protagonista dell’immagine era appena riemerso dal suo turno di 12 ore.
McCurry lo confessa: “Tutto avrei immaginato, ma certo non il suo immediato desiderio, appena uscito alla luce del sole, di accendersi una sigaretta”. E invece eccolo qui con la sua sigaretta e lo sbuffo di fumo.
Il suo sguardo è pieno di forza e dignità; la luce dei suoi occhi ipnotizza lo spettatore. La storia ci racconta di un uomo estremamente stanco, ma assolutamente non piegato dalle fatiche che la vita gli ha riservato. Questa è la tempra degli afgani. Un popolo fiero, che non rinuncia alla sua dignità neppure nelle situazioni più avverse.
A cura di Biba Giacchetti
Mostra a cura di Biba Giacchetti, organizzata da ARTIKA, in collaborazione con Sudest57 e Città di Conegliano
Credits: © Courtesy of Studio Esseci
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