Dopo 15 anni di discussioni, finalmente la regolamentazione potrebbe arrivare a forzare la moda a prendere sul serio la Sostenibilità. Risulta chiaro che oggi il sistema moda si contraddistingua per un modello di business “non sostenibile” che, oltretutto, continuerà a crescere a ritmi importanti. Di fatto, secondo le stime di Bcg e Global fashion agenda, si è portati a desumere che questo toccherà i 3,3 trilioni di dollari entro il 2030, con una crescita annua del 5% dell’impatto negativo sull’ambiente. Sempre entro il 2030 sono attesi aumenti significativi nel consumo di acqua (+50%), emissioni (+63%), tonnellate di rifiuti creati (+52%). Mentre, entro il 2050 ci si attende che l’industria della moda consumerà il 25% del carbon budget mondiale¹.
A decretare l’insostenibilità di questo mondo sono molti fattori, non solo a livello ambientale ma anche a livello sociale. Questo cambiamento è importante e inderogabile, è un processo che necessita di un’educazione e una sensibilizzazione continue. La transizione sostenibile è un percorso che presenta degli ostacoli: la prima criticità è, chiaramente, rappresentata dai costi iniziali legati all’implementazione di pratiche più sostenibili, come l’adozione di tecnologie eco-friendly o la revisione dei processi produttivi. Questi oneri possono essere significativi e richiedere investimenti ammortizzabili solo nel lungo termine. A questi elementi, che decretano la necessità che il sistema moda attui una effettiva transizione verso la sostenibilità, si unisce anche il fatto che i consumatori siano sempre più consapevoli ed esigenti.
Un imminente tsunami di normative governative potrà costringere l’industria della Moda a evolvere le sue pratiche?
Regolamento Ecodesign e Supply Chain Act si aggiungono a provvedimenti già in vigore: Deforestazione zero, Csrd e Green Claims. Progettazione eco compatibile, rendicontazione, monitoraggio della filiera e delle catene di approvvigionamento. E, ancora, la diffusione di informazioni attendibili e misurabili su prodotti che, in passato, venivano definiti solo “green”. Sono solo alcuni dei cambi di paradigma che le aziende della moda dovranno implementare sotto la spinta delle normative europee approvate nella legislatura del parlamento che si concluderà tra poche settimane. Dopo l’entrata in vigore del regolamento sulle catene di fornitura a deforestazione zero (operativo dal 29 giugno 2023), della Csrd e della Green Claims, questa settimana il parlamento europeo ha licenziato due provvedimenti chiave: il regolamento Ecodesign e la direttiva Csddd. Tutte e cinque le normative avranno un impatto forte sul sistema moda: il regolamento sulle catene di approvvigionamento a deforestazione zero e la Corporate sustainability due diligence directive (Csddd) impongono alle aziende un controllo maggiore sulla propria filiera. La Csddd, in particolare, impone alle grandi aziende di controllare che lungo le loro supply chain non si verifichino pratiche che danneggiano l’ambiente, i lavoratori e le comunità locali.
Negli ultimi 6 anni Puma è riuscita a raddoppiare le proprie entrate riducendo al contempo la propria impronta di carbonio di quasi un terzo. E’ un esempio virtuoso che molti dovrebbero seguire?
In un contesto in cui il cambiamento climatico è sempre più attuale, è essenziale per le aziende quantificare e ridurre la propria impronta di carbonio. Nel farlo, il rischio di “inciampare” nel greenwashing, ovvero di diffondere affermazioni non supportate scientificamente, è più che concreto. Esistono due strumenti per limitare questo rischio, entrambi basati sull’applicazione di norme internazionali. Tra gli indici più riconosciuti a livello internazionale c’è il Carbon Footprint Product (CFP), il risultato del calcolo di tutti i gas ad effetto serra emessi durante l’intero ciclo di vita del prodotto.
Nonostante il notevole incremento delle attività tra il 2017 e il 2021, il brand sportivo PUMA ha tagliato sulle sue emissioni di carbonio e su quelle provenienti dalla supply chain nel corso di questo periodo ed è quindi sulla buona strada per ridurle e portarle ai livelli raccomandati dagli scienziati per evitare le conseguenze peggiori dei cambiamenti climatici. Per ridurre l’impronta di carbonio, PUMA ha fissato un obiettivo scientifico per le emissioni di gas a effetto serra. Mirando a ridurre le emissioni del 35% (assoluto) e le emissioni della catena di fornitura del 60% tra il 2017 e il 2030. L’azienda tedesca, marchio globale dell’abbigliamento sportivo, ha raggiunto nel 2020 un importante traguardo in tema di sostenibilità. Il 100% delle materie prime utilizzate per i suoi capi d’abbigliamento e accessori, come la piuma, la viscosa e il cotone, sono state acquistate da fonti più sostenibili. Lodevole l’impegno di Puma.
Negli ultimi anni l’industria del Luxury è diventata più sensibile al tema ambientale. Ma l’innovazione azzera il rischio greenwashing che si estende ben oltre ai marchi del fast-fashion?
L’approccio adottato dal modello insostenibile e altamente inquinante del fast-fashion è in assoluto quello più gravoso sull’ambiente, tanto per le conseguenze sui nostri ecosistemi quanto per le condizioni di lavoro della manodopera. Numerosi sono i marchi di fast-fashion che cercano di alleggerire la loro immagine con operazioni raffinate di “greenwashing”, o più precisamente, di “greenlighting”, una strategia che prevede la promozione di collezioni etichettate come “sostenibili”, magari solo perché prodotte con materiali riciclati, o con cotone organico, per oscurare l’impatto ambientale dell’azienda.
Alta Moda e Sostenibilità restano un binomio complesso. Grandi marchi del Luxury, inizialmente scettici sull’adozione di pratiche environmental-friendly, abbracciano ora l’innovazione green, spinte dalla crescente consapevolezza ambientale e sociale dei consumatori. Strategie di greenwashing (più o meno evidenti) sono trasversali a tutta l’industria tessile e quasi certamente il segmento del lusso è quello dove questo fenomeno è minore. Ciò detto, va ribadito che la strada da fare è ancora lunga. Oggi è molto alto l’hype sui materiali riciclati, anche se spesso si tratta di tessuti dove la parte effettivamente riciclata è minima; quindi, di fatto si è di fronte a un tipo di comunicazione che può essere ingannevole.
Nell’ambito dell’industria del fashion, la sostenibilità si è affermata negli ultimi anni come tendenza principale a cui tutte le aziende hanno dovuto adeguarsi. La parola sostenibilità non si riferisce più solo a business rispettosi dell’ambiente, ma costituisce a tutti gli effetti una strategia di marketing irrinunciabile per qualunque brand competitivo sul mercato. La sostenibilità ha di fatto un prezzo spesso molto elevato, alimenta la distanza tra il mondo del lusso e i consumatori rendendo capi più sostenibili appannaggio di pochissimi. É necessario riconsiderare il ciclo tradizionale della moda, anche quella di Lusso, che richiede un ripensamento strutturale dell’attuale modello industriale, certamente insostenibile.
Come si affronta il divario di finanziamento climatico in parallelo al nuovo obiettivo di finanza climatica post-2025 (New Collective Quantified Goal)?
L’allineamento dei flussi finanziari è uno dei tre impegni cardine dell’Accordo di Parigi (insieme all’obiettivo 1,5°C e all’adattamento), e gli sforzi per rispettarlo sono già stati rimandati troppo a lungo. Alla COP15 di Copenaghen venne stabilito che i Paesi Annex II, quelli con l’obbligo di fornire sostegno finanziario, avrebbero dovuto stanziare una somma di 100 miliardi di dollari l’anno entro il 2020. L’obiettivo è stato poi esteso fino al 2025. Nonostante il focus sui 100 miliardi, le buone pratiche raccolte serviranno anche per impostare il nuovo obiettivo post-2025 purché non presenti gli stessi limiti del precedente. Infatti, il dialogo sulla finanza climatica a lungo termine continuerà fino al 2027 anche in relazione al nuovo obiettivo: è essenziale che, da un lato, i Paesi sviluppati continuino a fornire informazioni trasparenti sul loro sostegno finanziario e, dall’altro, i Paesi in via di sviluppo ricevano supporto per identificare concretamente le proprie necessità.
Risulta elemento imprescindibile trovare fondi da investire nella transizione, soprattutto in quei Paesi che più hanno bisogno di risorse e che subiscono maggiormente gli effetti non solo del cambiamento climatico, ma anche di un sistema socio economico iniquo. Sappiamo quanto le azioni di adattamento al clima siano cruciali e quanto sia stato inadeguato il sostegno fornito finora. Sebbene cinque paesi su sei dispongano di almeno uno strumento nazionale di pianificazione dell’adattamento, i progressi verso il raggiungimento della piena copertura globale stanno rallentando. E il numero di azioni di adattamento sostenute attraverso i fondi internazionali per il clima è rimasto stagnante negli ultimi dieci anni.
La Finanza Climatica necessita di riforme centrate per abilitare la transizione ecologica. Ruolo centrale per Banca mondiale, (Fmi) e anche per i grandi istituti finanziari dove gli shareholder sono i governi. In particolare i paesi G7. Peseranno i summit dei Sette grandi, presieduti dal primo gennaio dall’Italia?
Molto. Gli Stati del G7 hanno un ruolo chiave per reindirizzare le banche multilaterali di sviluppo sugli investimenti, sostenere la diminuzione dei rischi di investimento nel settore privato e diminuire dunque il costo del capitale dei progetti di decarbonizzazione, di circolarità e di supporto alla natura. In capo al Fmi (Fondo monetario internazionali) risiede la questione dei debiti sovrani. Andranno riviste le attuali regole restrittive che impediscono gli investimenti per la transizione. Nonostante i governi si impegnino a ridurre le emissioni, siglando impegni e decretando nuove politiche, dall’altra parte, banche pubbliche e private continuano a finanziare progetti legati all’estrazione del petrolio e del gas. L’interruzione dei finanziamenti alle fonti fossili e una riforma dell’architettura finanziaria internazionale sono i presupposti di base per riordinare la finanza climatica.
L’Edizione italiana del Women 7 (W7) Summit mondiale per le pari opportunità – guidato da Lei in qualità di Co-Chair insieme a Martina Rogato, Claudia Segre e Lella Golfo – ha chiesto ai leader del G7 di investire in soluzioni climatiche innovative e mirate, facilmente accessibili, economiche e su misura per tutte le esigenze delle donne e delle ragazze, progettate insieme a loro e ai beneficiari. Questo deve essere sostenuto da quali fondi per il clima?
Basandosi sui principi di inclusione e intersezionalità, Women7 (W7) riunisce organizzazioni femministe della società civile di tutto il mondo. Il Comunicato del W7 è stato elaborato attraverso la discussione di esperte femministe provenienti da 42 Paesi, comprese le giovani e quelle dei Paesi a basso e medio reddito, e ulteriormente perfezionato attraverso consultazioni giovanili e pubbliche con la partecipazione di tutto il mondo. INSIEME, abbiamo chiesto ai leader del G7 di far tesoro degli impegni assunti per garantire l’equità di genere e intergenerazionale attraverso raccomandazioni per una trasformazione sostenibile e giusta dal punto di vista del genere.
Quando si tratta di azione per il clima, l’iniquità nella rappresentanza delle donne ha portato a un divario evidente nelle soluzioni climatiche orientate a coloro che sono più colpiti dalla crisi climatica. Il G7 ha la capacità di influenzare le politiche climatiche globali e di garantire che i diritti umani e l’equità siano al centro dell’azione per il clima. È importante che i negoziati sul clima si svolgano in luoghi democratici e liberi e che i Paesi ospitanti non violino i diritti della società civile. Chiediamo che vengano utilizzate leve fondamentali per contribuire a colmare il divario di disuguaglianza nell’istruzione, nella giustizia sociale, nella protezione legale e nelle infrastrutture. Imperativo è investire in soluzioni climatiche innovative e mirate, facilmente accessibili, economiche e su misura per tutte le esigenze delle donne e delle ragazze, progettate insieme a loro e ai beneficiari. Questo deve essere sostenuto da fondi per il clima come il Fondo ONU per le perdite e i danni, il Fondo per l’adattamento, i Diritti speciali di prelievo (DSP) e altro ancora.
Annamaria Tartaglia – CEO TheBrandSitter, Founder Angels4Women, W20 (G20) e W7 (G7) Advisor Delegate, Laureata in Marketing e Comunicazione, EMBA in Leadership (IMD Losanna), EMBA in Arte e Gestione dei Beni Culturali ha lavorato in agenzie internazionali di pubblicità (TBWA, B Communications GGK, Attila&Co) come Strategic Planner e ha poi proseguito la sua carriera nel mondo della moda, del lifestyle e del lusso. Tra le sue esperienze manageriali aziende quali Trussardi e Ferragamo in qualità di Global Marketing e Communications Director, Superga e Value Retail come Chief Marketing & Communications Officer.
Attualmente è Ambassador per Cartier Women’s Initiative, CEO di TheBrandSitter, be spoke factory dedicata allo sviluppo strategico di marchi alta gamma nei mercati internazionali e fondatrice di Angels4Women, il primo gruppo di business angels donne nato per sostenere e sviluppare start up al femminile. E’ impegnata nello scouting, mentoring e formazione di giovani talenti che supporta nei loro percorsi imprenditoriali con innovatività, visione e capacità di coaching. Nel 2019 è stata nominata da Startup Italia come una delle 150 donne che stanno cambiando l’Italia (#unstoppablewomen), finalista nel 2020 del Premio Business Angel dell’anno ed è delegata di W20, il gruppo di interesse della società civile che ha lo scopo di elaborare proposte di policy su gender parity, imprenditorialità e empowerment per i leader dei paesi membri del G20. Ha pubblicato il libro “Il Lusso… Magia&Marketing. Presente e futuro del superfluo indispensabile” (Ed. Franco Angeli – 5 edizioni dal 2005 ad oggi), è coordinatore scientifico dell’area Luxury&Fashion Management per BS24 e visiting professor presso le Università e le scuole più qualificate in Italia e all’estero (Boston, Doha, Mosca, Ginevra, Dubai).
Exclusive Interview: © Courtesy of Annamaria Tartaglia
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