La mostra si sonda nei due spazi di via della Scala e di via Benedetta. Una mostra coraggiosa costruita per “assoli” che convivono nello stesso luogo. Sono opere costruite con teloni pesanti tagliati a strisce e pezzature di dimensioni varie, ricucite assieme. I supporti sono in diversi casi marchiati da scritte e cifre di matrice industriale. Elementi grafici che dichiarano un’appartenenza e una provenienza. Testi che ricordano epigrafi o dediche sui monumenti e nei dipinti antichi.
I teloni sono assolutamente monocromi, superfici mai piatte, dove l’immagine completa è data dalla gradazione della verniciatura, che è già un racconto e parla da sé, nonché dalle diverse sezioni geometriche del supporto ricomposte in unità visiva ed espressiva, come patchwork secondo una usanza domestica di riciclo e risparmio, in voga fin dai primordi. A questi teloni – carichi di un rosso iodio o di verde petrolio, oppure del colore della malva o della prugna – si aggiungono altri lavori pittorici realizzati sempre con teloni ferroviari coperti però in questo caso da una pittura metallica color argento.
All’aspetto moderno dei teloni monocromi si contrappone questo modernista dell’allumino. La superficie in questi casi è diversamente luminosa ed è lavorata con segni grafici, incisioni e abrasioni. Al centro dell’opera è fissata con un procedimento meccanico una testa eroica, di imperatore romano. Sono quadri monumentali non per dimensioni ma per scelta poetica e iconografica. Nel primo caso invece il tono alto e imponente è dato dalla scelta del monocromo e del linguaggio astratto.
La povertà dei teloni ha il suo peso, il materiale porta con sé una sua storia. L’astratto, in definitiva, non è tale. È una struttura narrativa astratta complessa realizzata togliendo dati figurativi ma non privandola di ‘anima’. D’altro canto, anche i quadri iconici non appaiono riducibili al solo linguaggio figurativo, visto che alla citazione archeologica dominante al centro sono stati aggiunti episodi grafici significativi, di natura gestuale e informe. La fredda e vuota citazione, la superficiale suggestione dell’antico, è qui carica di ferite e cicatrici, di un vissuto esistenziale, di una pelle e di un corpo che ci raccontano un proprio originale vissuto. Il titolo della mostra – dal 30 novembre a cura di Sergio Risaliti – vale come uno statement e lascia intendere come il campo dell’arte – e in particolare quello della pittura – sia quel luogo – nel mondo e nella realtà – “in cui gli opposti stanno”.
La presenza di linguaggi opposti innalza la poesia delle immagini a una dimensione quasi sacrale, svuotando di retorica gli stili per fare posto alla narrazione povera dei materiali, quella empatica dei monocromi, al vissuto delle superfici, armonizzando questi materiali così risonanti ed espressivi con le strutture geometriche del supporto, con il codice iconico delle teste.
Costruendo i suoi ‘quadri’, Pignatelli si comporta come un musicista classico contemporaneo che fa dell’avanguardia un repertorio tra i tanti e che nelle sue composizioni sperimentali fa stare assieme – ma stare bene e con un senso che non è solo linguaggio e forma, ma poesia ed espressione – materiali di diversa natura e provenienza, storie e contesti differenti, perfino suoni e vocaboli discordanti.
L’artista cacciato dalla Repubblica, afferma un suo ruolo possibile oggi nella sua rielaborazione e difesa. Risparmio, riciclo, recupero della memoria, archeologia delle immagini, ossessione dell’archivio, sono tutte operazioni inerenti il suo lavoro di pittore che non rifiuta il confronto con la realtà e la società, ma lo fa affermando la specificità e centralità del linguaggio artistico, in specifico quello del pittore che all’interno della sua opera è in grado di far stare gli opposti, senza tuttavia svuotarli di originalità e differenza.
Con le sue opere, dominate da senso della proporzione e da un emozionante connubio di serenità e malinconia, classicità e modernità, bellezza e povertà, possiamo confrontarci nell’immediato presente con il nostro sapere visivo e con il nostro vissuto, per dare un senso non solo e non tanto al passato della civiltà occidentale, quanto al prossimo futuro dell’humanismus nell’era della globalizzazione digitale. In tre decenni l’artista ha raccolto un archivio eterogeneo di immagini memorabili, collettive e universali, in cui si riconoscono manufatti e segni figurativi di epoche antiche e moderne, testimonianza di civiltà antiche e del progresso industriale. Sono riproduzioni fotografiche che l’artista recupera a centinaia, selezionandole da pubblicazioni di varie epoche, recuperandole tra bancarelle e gallerie di antichità, con una “cupidigia” che imparenta la sua ossessione a quella del collezionista.
Nelle opere di Pignatelli ricorrono immagini di statue greche e romane, busti in marmo, figure in pietra di eroi feriti, imperatori a cavallo o togati, ermafroditi e ninfe, nudi atleti, centauri con Lapiti, figure del mito come Pegaso e Afrodite, Diana e Hermes, Ercole e Apollo, e poi colonnati di templi pagani e piazze rinascimentali, grattacieli e dirigibili, aerei in picchiata, basiliche e grandi stazioni, foreste e laghi ghiacciati.
Le opere di Pignatelli si nutrono di un fuori tempo, di un tempo differito, quello di immagini che vivono di stratificazioni temporali, annullando, nella dimensione iconica della figura memorabile, nell’eterno presente dell’arte, lo scorrere del tempo, la sequenza di ieri e oggi, e soprattutto l’evoluzione iconografica, quella lineare degli stili.
Riconosciamo nelle sue opere un’esperienza romantica della storia e della classicità, non retorica, non ideologica, neppure nostalgica; un’esperienza che viene drammatizzata dall’uso di supporti poveri o industriali, carichi anch’essi di memoria, per una dialettica tra segni e materiali, tra arte anacronistica e arte povera, che permette a Luca Pignatelli di evitare la mera suggestione della citazione antiquaria, l’evocazione di una sterile atmosfera.
In altri termini le sue immagini-archivio sono quelle di una classicità sempre viva e presente che non parla il linguaggio muto, inanimato della copia, quello cinico della citazione post-moderna. È grazie all’accostamento tra primo piano e sfondo, tra fondo povero e immagine illustre, che Pignatelli critica la celebrazione di ogni classicità e ogni sua nostalgica rinascenza, chiedendoci di posare lo sguardo sulle ferite e le lacerazioni inferte all’umanità durante le epoche più gloriose del nostro passato in nome e per conto della bellezza e del sacro, del potere sovrano e della razza superiore.
Per l’occasione sarà edito un catalogo con testi di Sergio Risaliti ed Arturo Carlo Quintavalle.
Luca Pignatelli
In un luogo dove gli opposti stanno
Galleria Poggiali, Firenze
30.11.2019 – 8.02.2020
Credits: © Courtesy of Lara Facco P&C
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