Il giornalista e scrittore Jacopo Bedussi analizza la trasformazione della tuta negli anni ‘80, da classico dello sportswear a terreno democratico per la costruzione di un’identità di gruppo riconoscibile e condivisa.
Alessandro Michele nella collezione Pre-Fall 2018 ne rivendica il backlash glamour ma quella della tuta è una storia lunga e piena di mutazioni, genetiche e semiotiche.
Tutto nasce com’è facile immaginare dallo sport e dalla necessità oggettiva di abiti che assecondassero i movimenti. A cavallo tra i ’70s e gli ’80s succede che, quello che fino ad allora era stato considerato un ibrido bizzarro tra atletica e hobby, diventa un fenomeno pop: il jogging. Si corre dappertutto. La tuta diventa divisa comoda, salutare e salutista. Espressioni cinematografiche del fenomeno furono il celeberrimo Rocky Balboa e poi l’angelo sporty Warren Beatty-Joe Pendleton in “Il paradiso può attendere“, entrambi archetipici e supereroici in jersey mélange. Il fitness edonista e i corsi di aerobica in VHS di una altrettanto eroica Jane Fonda non fanno che aumentare il volume, numerico e sonoro, di questo nuovo stile di vita.
Nel 1984 le Olimpiadi di Los Angeles
sono una dichiarazione planetaria di supremazia muscolare statunitense. Gli atleti medaglia d’oro diventano celebrità e super-men, in senso sia fumettistico che nietzschiano. La tuta, ora colorata, disegnata, pensata e caricata di significato, prende il posto del mantello mantenendo però le proprietà di un terreno fertile su cui costruire personalità larger-than-life. Si potrebbe dire semi-divine, anche nella cultura pop mediatica: Carl Lewis è il figlio del vento, Florence Griffith-Joyner manicure mitologica e destino tragico e poi Michael Jordan ‘per acclamazione il più grande giocatore di basket di tutti i tempi’, solo per citarne alcuni.
tuta: dallo sportswear a terreno democratico
È questo il livello zero da cui inizia la proliferazione. Gli agenti mutageni sono geografici, musicali, culturali. Dall’estetica techno-posh delle settimane bianche del jet set, ad Aspen come a Sant Moritz, nascono le shell suit in nylon fluo, dichiarazioni di benessere rilassato, accessoriato poi con tocchi di status inestimabili, che Gucci omaggia nella giacca in jersey tecnico a stampa GG.
Dalle strade dell’east coast invece l’impero dell’hip hop si riveste di velour e triacetato, usando la tuta come seconda pelle condivisa e democratica. Rivendicazione territoriale su cui innestare individualismo o appartenenza a un dato gruppo ostentando simboli, customizzazioni o altri capi d’abbigliamento collaterali.
Il resto diventerà normalizzazione o casual friday, forse streetwear. Ma questa è un’altra storia e sicuramente un altro decennio.